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venerdì 29 luglio 2011

la strada di Swann

Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera.
A volte, non appena spenta la candela, mi si chiudevan gli occhi cosí subito che neppure potevo dire a me stesso: "M’addormento".
E, una mezz’ora dopo, il pensiero che dovevo ormai cercar sonno mi ridestava; volevo posare il libro, sembrandomi averlo ancora fra le mani, e soffiare sul lume; dormendo avevo seguitato le mie riflessioni su quel che avevo appena letto, ma queste riflessioni avevan preso una forma un po’ speciale; mi sembrava d’essere io stesso l’argomento del libro: una chiesa, un quartetto, la rivalità tra Francesco primo e Carlo quinto.
La convinzione sopravviveva per qualche attimo al mio risveglio, e non offendeva la mia ragione, ma mi pesava sugli occhi come scaglie, ed impediva loro di rendersi conto che la candela non era piú accesa. Poi cominciava a farmisi inintelligibile, come i ricordi di un’esistenza anteriore dopo la metempsicosi; il contenuto dei libro si staccava da me, ero libero di pensarci o non pensarci; subito ricuperavo la vista ed ero assai stupito di trovare intorno a me un’oscurità dolce e riposante per i miei occhi, ma forse piú ancora per l’animo mio, al quale essa appariva come una cosa senza causa, incomprensibile, come una cosa veramente oscura. Mi domandavo che ora potesse essere; sentivo il fischio dei treni, che, piú o meno lontano, come il canto di un uccello in una foresta, segnando le distanze, mi descriveva la distesa della campagna deserta, dove il viaggiatore s’affretta verso la stazione vicina; e il viottolo ch’egli percorre gli resterà impresso nel ricordo dall’eccitazione che gli dànno dei luoghi nuovi, degli atti insoliti, i recenti discorsi e l’addio sotto una lampada estranea che lo seguono ancora nel silenzio della notte, la prossima dolcezza del ritorno. Appoggiavo teneramente le gote alle belle gote del guanciale, piene e fresche come quelli della nostra infanzia. Accendevo un fiammifero per guardar l’orologio. Mezzanotte fra poco. E’ il momento in cui il malato che abbia dovuto mettersi in viaggio e dormire in un albergo sconosciuto svegliato da una crisi, si rallegra al vedere sotto la porta una riga di sole. Che gioia, è già mattina! Tra un minuto i servi si alzano, potrà suonare il campanello, verranno a dargli aiuto. La speranza del conforto gli dà coraggio nella sofferenza. Ecco, proprio gli è parso di sentire un rumore di passi: i passi s’avvicinano, poi s’allontanano. E la riga di sole sotto la sua porta è scomparsa. E’ mezzanotte; hanno appena spento il gas; l’ultimo cameriere se n’è andato e bisognerà passare la notte a soffrire senza rimedio. [...] La mia sola consolazione, quando salivo per coricarmi, era che la mamma venisse a darmi un bacio non appena fossi stato a letto. Ma quella buonanotte era di cosí breve durata, ella ridiscendeva cosí presto, che il momento in cui la sentivo salire, poi quando passava nel corridoio a doppia porta il rumore leggero della sua veste da giardino di mussola azzurra, dalla quale pendevano cordoncini di paglia intrecciata, era un momento per me doloroso. Annunciava quello che l’avrebbe seguito, in cui mi avrebbe lasciato, e lei sarebbe ridiscesa. Di modo che quella buonanotte che mi era cosí cara, giungevo a desiderare che venisse il piú tardi possibile, perché si prolungasse l’intervallo in cui la mamma non era ancora venuta. Qualche volta, quando, dopo avermi baciato, ella apriva la porta per andarsene, volevo chiamarla indietro, dirle: "Dammi ancora un bacio" ma sapevo che subito ella avrebbe fatto il viso scuro, giacché la concessione che faceva alla mia tristezza e alla mia agitazione salendo ad abbracciarmi, portandomi quel bacio di pace, irritava mio padre, che riteneva assurdi quei riti, ed ella avrebbe voluto procurare di farmene perdere la necessità, l’abitudine, ben lungi dunque dal lasciarmi prendere quella di domandarle, quando già fosse sulla soglia della porta, un bacio di piú. Ora, vederla adirata distruggeva tutta la calma che ella m’aveva portato un attimo prima, quando aveva chinato sul mio letto il suo volto amoroso, e me l’aveva teso come un’ostia per una comunione di pace a cui le mie labbra attingessero la sua presenza reale e il potere di addormentarmi. [...] Cosí è per il passato nostro. E’ inutile cercare di rievocarlo, tutti gli sforzi della nostra intelligenza sono vani. Esso si nasconde all’infuori dei suo campo e del raggio d’azione in qualche oggetto materiale (nella sensazione che ci verrebbe data da quest’oggetto materiale) che noi non supponiamo. Quest’oggetto, vuole il caso che lo incontriamo prima di morire, o che non lo incontriamo. Erano già molti anni che di Combray tutto ciò che non era il teatro e il dramma del coricarmi non esisteva piú per me, quando in una giornata d’inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, un po’ di tè. Rifiutai dapprima, e poi, non so perché, mutai d’avviso. Ella mandò a prendere una di quelle focacce pienotte e corte chiamate "maddalenine", che paiono aver avuto per stampo la valva scanalata d’una conchiglia di san Giacomo.....

Marcel Proust

Oblomov

Una mattina Il'ja Il'iè Oblomov se ne stava a letto nell'appartamento che occupava in uno di quei casermoni di via Gorochovaja i cui inquilini sarebbero bastati a popolare un intero capoluogo di distretto.Il'ja Il'iè era un uomo di circa trentadue-trentatré anni, di statura media, gradevole d'aspetto, con occhi grigio scuro;
ma i tratti del volto rivelavano un'assoluta incapacità di determinazione e di concentrazione. Il pensiero volubile trascorreva
senza guida sul suo viso, gli svolazzava negli occhi, si arenava fra le labbra semiaperte, si nascondeva fra i solchi della
fronte, poi si dileguava di botto, e allora il volto restava rischiarato solo del vago lucore dell'indolenza. Dalla faccia,
l'indolenza si propagava a tutto l'atteggiamento del corpo, addirittura alle pieghe della vestaglia.
Di quando in quando, un'espressione che si sarebbe detta di stanchezza o di noia gli offuscava lo sguardo; ma la
stanchezza o la noia non potevano scacciare nemmeno per un momento la mitezza, che era la caratteristica essenziale e
dominante non solo del volto, ma di tutta l'anima; e l'anima risplendeva aperta e chiara negli occhi, nel sorriso, in ogni
movimento della testa o della mano. Un osservatore distaccato e superficiale, dopo una rapida occhiata a Oblomov, avrebbe
potuto dire: «Deve essere un tipo semplice e di buona pasta!». Ma un osservatore più acuto e partecipe, che lo avesse
osservato a lungo, si sarebbe forse allontanato sorridendo, immerso in gradevoli meditazioni.
Il colorito di Il'ja Il'iè non era né roseo, né olivastro, né decisamente pallido, ma smorto; o forse così sembrava
perché Oblomov era troppo floscio, per l'età che aveva, a causa della mancanza di moto o di aria, o probabilmente di
entrambi. Nell'insieme il suo corpo, a giudicare dal colore scialbo e troppo bianco del collo, delle mani piccole e paffute,
delle spalle cascanti, appariva eeccessivamente femmineo.
Anche i suoi movimenti, perfino quando era inquieto, venivano frenati dalla fiacchezza e dalla pigrizia, non priva,
nel suo genere, di una certa grazia. Se la nube nera di una preoccupazione saliva dall'anima ad addensarsi sul viso, lo
sguardo si offuscava, la fronte si corrugava, e dubbio, afflizione e timore iniziavano il loro girotondo; ma raramente questa
inquietudine si coagulava in un'idea precisa, e ancor più raramente si trasformava in un proposito concreto. Tutta
l'inquietudine si risolveva in un sospiro e si estingueva nell'apatia o nella sonnolenza.
Come armonizzava l'abito da casa con i tratti sereni del volto di Oblomov e con la mollezza del suo corpo!
Indossava una vestaglia di stoffa persiana, una autentica gabbana all'orientale, senza nulla di europeo, senza nappe, senza
velluto, senza vita, tanto ampia che Oblomov ci si poteva avvolgere dentro due volte. Le maniche, secondo l'immutabile
moda asiatica, andavano allargandosi dalle dita alle spalle. Malgrado avesse perduto l'originale freschezza, e la prima,
naturale lucentezza fosse stata soppiantata qua e là da un lustro d'altro genere, determinato dall'uso, la gabbana conservava
pur sempre la vivacità dei colori orientali e la solidità del tessuto.
Agli occhi di Oblomov, quella gabbana aveva un mucchio di pregi inestimabili: era morbida, adattabile; non te la
sentivi addosso; e si sottometteva al più piccolo movimento del corpo come un docile schiavo.
Oblomov girava sempre per casa senza cravatta e senza panciotto, perché gli piacevano la libertà e la comodità. Le
sue pantofole erano lunghe, morbide e larghe: cosicché i piedi, quando egli scendeva dal letto senza nemmeno guardare
dove li mettesse, andavano immediatamente a infilarvisi dentro.
Per Il'ja Il'iè la posizione orizzontale non era una necessità, come per un malato o per chi desideri dormire, né un
fatto accidentale provocato dalla stanchezza, né un piacere da individuo pigro: era il suo stato normale. Quando era a casa -
ed era quasi sempre a casa - se ne stava sempre coricato, e sempre nella stessa camera dove lo abbiamo trovato, che gli
serviva da stanza da letto, da studio e da salotto. Aveva altre tre camere, ma ci entrava di rado, magari al mattino, e anche
questo non tutti i giorni, ma solo quando gli rassettavano lo studio, il che non capitava spesso. In quelle stanze i mobili
erano coperti con le fodere e le tende abbassate.
A prima vista, la camera in cui Il'ja Il'iè se ne stava sdraiato sembrava molto ben arredata. C'erano uno scrittoio di
mogano, due divani ricoperti di seta, bei paraventi su cui erano ricamati uccelli e fiori mai visti in natura. E c'erano tendaggi
di seta, tappeti, alcuni quadri, bronzi, porcellane e un'infinità di graziosi ninnoli.
Ma l'occhio esercitato di una persona di buon gusto avrebbe scorto in quell'insieme nulla più che il desiderio di
mantenere alla meno peggio il decorum imposto dalle convenienze, pur di levarsi il pensiero. Senza dubbio, solo questa era
stata la cura di Oblomov al momento di arredare lo studio. Un padrone di casa dal gusto raffinato non si sarebbe contentato
di quelle sedie di mogano pesanti e sgraziate, di quegli scaffali traballanti. Lo schienale di un divano aveva ceduto, e il
legno si era scollato in parecchi punti.
Quadri, vasi e ninnoli erano nelle identiche condizioni.
Lo stesso padrone, peraltro, guardava l'arredamento del suo studio con occhio freddo e indifferente, come a
chiedersi: «Chi ha trascinato e ammucchiato qui tutta questa roba?». Forse perché Oblomov considerava i suoi beni con
tanto distacco, e forse perché il suo servitore Zachar li considerava con un distacco ancor maggiore, l'aspetto dello studio, a
guardarlo con più attenzione, colpiva per il disordine e la trascuratezza.
Ragnatele cariche di polvere pendevano a guisa di festoni dalle pareti, vicino ai quadri; gli specchi erano tanto
polverosi che, invece di riflettere gli oggetti, avrebbero potuto servire come tavolette su cui annotare le cose da non
dimenticare. I tappeti erano pieni di macchie. Sul divano era abbandonato un asciugamano; al mattino era un caso raro non
trovare sul tavolo, non sparecchiato la sera prima, il piatto, la saliera, un osso rosicchiato e briciole di pane un po' dovunque.
Se non fosse stato per questo piatto e per la pipa ancora calda posata sul letto, e per lo stesso padrone che stava
dentro il letto, si sarebbe potuto pensare che in quella casa non vivesse nessuno, tanto le cose erano polverose, scolorite e
non lasciavano intuire una sola traccia di presenza umana.......

LE AVVENTURE DI HUCKLEBERRY FINN



Tutta la letteratura americana deriva da un libro di Mark Twain intitolato Huckleberry Finn. Tutti gli scritti americani derivano da quello. Non c'era niente prima. 
Non c'era stato niente di così buono in precedenza. (Ernest Hemingway)

AVVERTENZA.
Chi cercherà di trovare uno scopo in questa narrazione sarà perseguito
    a termini di legge;  chi tenterà di trovarvi una morale sarà esiliato;
    chi cercherà di trovarvi una trama sarà fucilato.
    ORDINE DELL'AUTORE.
per tramite del G. G, Capo dell'Ufficio Sussistenza

 Voi di me non sapete niente se non avete letto un libro che si chiama Le avventure di Tom Sawyer, ma questo
non importa. Questo libro l'ha fatto Mr. Mark Twain, e lui ha detto la verità, in genere. Certe cose le ha tirate in lungo,
ma di solito ha detto la verità. Ma questo è niente. Non ho mai visto nessuno che non ha contato delle balle, prima o poi,
tranne zia Polly, o la vedova, o magari Mary. La zia Polly - cioè la zia Polly di Tom - e Mary e la vedova Douglas, beh,
c'è tutto in quel libro, che in genere è un libro veritiero, anche se un po' tirato in lungo, come ho detto prima.
Ora quel libro si svolge così: io e Tom abbiamo trovato la grana che i ladri hanno nascosto nella grotta, e così
siamo diventati ricchi. Ci siamo cuccati seimila dollari a cranio - tutti in oro. Era un casino di soldi, a vederlo tutto
ammucchiato. Bene, il giudice Thatcher se lo è preso, e lo ha messo a interesse, e ci dava un dollaro al giorno ciascuno,
per tutto l'anno - che quasi non sapevi che farci. La vedova Douglas mi ha preso come figlio suo, e ha detto che voleva
civilizzarmi; ma era una bella barba stare in casa tutto il tempo, con la vedova che era così a posto e per bene nei suoi
modi; e così, quando non ce l'ho fatta più, ho tagliato la corda. Mi sono rimesso i miei stracci, sono tornato alla mia
botte, ed ero di nuovo libero e soddisfatto. Ma Tom Sawyer, lui mi è venuto subito a cercare e mi ha detto che voleva
mettere su una banda di briganti, e che potevo entrarci anch'io se tornavo dalla vedova e diventavo rispettabile. E così
sono tornato.
La vedova si è messa a strillare, e mi ha detto che ero una povera pecorella smarrita e mi ha detto che ero un
sacco di altre cose, ma senza cattive intenzioni. Mi ha rimesso addosso i vestiti nuovi, che io sudavo da morire, e mi
sentivo tutto legato. Beh, tutto è ricominciato come prima. La vedova suonava un campanello per la cena e tu dovevi
arrivare in tempo. Quando arrivavi a tavola non potevi sederti subito a mangiare, ma dovevi aspettare lei che metteva
giù la testa e borbottava qualcosa sul cibo, anche se sul mangiare non c'era niente da dire. Cioè, niente, solo che tutto
era cotto separato. Se invece le metti insieme, le cose si mischiano, e il sugo va su tutto e le cose sono più buone.
Dopo cena tirava fuori il libro e mi imparava di Mosè e dei giunchi; e io sbavavo per sapere come andava a
finire; ma poi lei salta fuori a dire che Mosè era morto da un mucchio di tempo; e allora a me non m'interessa più di lui,
perché dei morti non me ne frega un cavolo.
Allora mi viene voglia di fumare, e chiedo alla vedova se mi lascia. Ma lei mi dice che è una cosa brutta, che è
un vizio, e che devo cercare di non farlo più. Con certa gente è sempre così. Si fissano su una cosa anche se di questa
cosa non sanno niente. Si scalda tanto per Mosè, che non è neppure suo parente e non può fare del bene a nessuno visto
che non c'è più, e invece trova a ridire su di me perché voglio fare una cosa che alla gente gli piace. Lei invece sniffa il
tabacco, ma quello va bene perché lo fa lei.
Dopo di lei mi piomba addosso con un abbecedario sua sorella, Miss Watson, una zitella un sacco magra con
gli occhialini sul naso, che era appena venuta a vivere con lei. Mi tira scemo mica male per circa un'ora, e poi la vedova
viene a farla smettere. Non avrei potuto andare avanti ancora per molto. È stata un'ora di noia mortale, e io non riuscivo
a star fermo. Miss Watson mi dice: «Non mettere i piedi lì, Huckleberry»; e «non stravaccarti in quel modo,
Huckleberry - mettiti dritto»; e subito dopo mi fa: «Non sbadigliare e non stiracchiarti così, Huckleberry - cerca di
comportarti bene». Poi mi parla di quel brutto posto, e io gli chiedo perché non ci va. Allora si è incavolata, ma io l'ho
detto senza cattive intenzioni. Io volevo solo dire che è bello andare in un posto, ma solo per cambiare un po', non
volevo mica criticare. Lei mi ha detto che ero malvagio a dire quella roba lì; ha detto che lei non l'avrebbe augurato a
nessuno, mai e poi mai; lei invece voleva vivere in modo da andare a finire nel posto bello. Io non ci tenevo per niente
ad andare dove c'era lei, e così ho deciso che non ci sarei finito. Però mica gliel'ho detto, perché chissà che casino ne
veniva fuori.
Ma adesso che è partita, chi la ferma più, e ha continuato a dirmi del posto bello. Dice che tutto il giorno la
gente non ha da far altro che andare in giro con l'arpa a cantare, e sempre così. A me, questa cosa, non è che mi fa
impazzire, però mica gliel'ho detto. Gli ho domandato se pensava che anche Tom Sawyer sarebbe andato a finire, lì, e
lei ha detto che era molto difficile. E questo mi ha fatto contento, perché voglio che io e lui stiamo sempre insieme.
Miss Watson ha continuato così ad angosciarmi per un bel po', che non ne potevo più. Alla fine sono andati a
chiamare i negri per dire le preghiere, e poi se ne sono andati tutti a letto. Io sono salito su in camera mia con un
mozzicone di candela e l'ho messo sul tavolo. Poi mi sono seduto su una sedia accanto alla finestra e cercavo di pensare
a qualcosa di allegro, ma era inutile. Mi sentivo solo, e volevo essere morto. Brillavano le stelle, e nei boschi le foglie
frusciavano con un suono lugubre; e io sento una civetta lontana, che chiama qualcuno che è morto, e un succiacapre e
un cane che piangono per qualcuno che sta per morire; e il vento cercava di bisbigliarmi qualcosa, ma io non riuscivo a
capire che cosa, e questo mi fece venire i brividi freddi. Poi lontano, nel bosco, ho sentito quel tipo di verso che fa un
fantasma quando vuole dire qualcosa che ha in mente, ma non riesce a farsi capire, e così non può avere riposo nella
tomba e deve andare in giro ogni notte lamentandosi a quella maniera. Ero così abbattuto e avevo tanta di quella fifa che
avrei voluto avere qualcuno lì con me a farmi compagnia. Presto un ragno comincia a strisciarmi sulla spalla, e io gli do
un colpo con la mano, e lui finisce sulla fiamma della candela; e prima che riesco a muovere un dito è tutto raggrinzito.
E non c'è bisogno che me lo dica nessuno che quello è un brutto segno, e che mi capiterà qualche disgrazia, e mi viene
una tremarella tale che quasi mi cadono i vestiti. Mi alzo e per tre volte mi giro su me stesso, e ogni volta mi faccio il
segno della croce; e poi mi lego con uno spago un ricciolo di capelli per tenere lontane le streghe. Però non avevo
nessuna fiducia, perché questo lo fai quando perdi un ferro di cavallo che hai trovato e che ti sei dimenticato di attaccare
subito sulla porta, ma non ho mai sentito nessuno dire che è così che devi fare per tenere lontana la scalogna quando hai
ucciso un ragno.
Mi siedo tremando come una foglia, e tiro fuori la pipa per farmi una fumatina, perché la casa era ormai
silenziosa che sembrava un cimitero, e dunque la vedova non lo poteva venire a sapere. Beh, dopo un mucchio di tempo
ho sentito suonare l'orologio della città - don-don-don -, dodici colpi, e poi di nuovo tutto è calmo - più calmo che mai.
Ma subito dopo sento un ramo che si rompe giù nel buio nero degli alberi - c'è qualcosa che si sta muovendo. Mi metto
fermo e ascolto. Ed ecco sento laggiù, piano piano, un «miao! miao!». Oh meno male! E io rispondo, «miao! miao!»,

più piano che posso, e spengo la luce e scivolo giù dalla finestra sul tetto della rimessa. Poi scendo a terra e striscio fra
gli alberi, e lì trovo Tom Sawyer che mi sta aspettando....

da Historia fratris Dulcini...


Opera autem ipsorum Dulcini et sequacium eius erant abominabilia et nefanda, et predicationes eorum erronee, et heretica dogmata ipsorum maledicta et omnimodo contra normam fidei orthodoxe
Nam ipse Dulcinus, dum stetisset super montibus antedictis et etiam dum stabat in Valle Sicida dixitcrediditdocuit et publice predicavit multis vicibus et predicari iussit, prout sponte confessus fuit, quod ipse et sequaces sui poterant et eis licitum erat susperderedecapitaremutilare et interflicere homines et personas locorum obediencium ecclesie romane, ac specialiter incenderedestruerecapere et compellerechristianos ad redemptionem faciendam et hoc sine peccato.
Item derobarecarcerare et quecumque mala inferre christianis, potius quam mori de fame et deserere eorum fidemItem quod status suus et sequacium eius erat perfectior et sanctior omni alio statu, qui essetin ecclesia, quia patiebantur persecutionem.
Item, quod episcopus poterat aliquem episcopatumreligiosus religionem suam, sacerdos curatus ecclesiam suam et curamvir uxorem suam, et uxor virum relinquere causa sequendi sectam suam et fidem.
Item, quod clericilaiciprelatireligiosi et quicumque ordinati in ecclesia deiin quocumque statu essentordine vel dignitatepoterantrelicto eorum statulibere et impune transire ad eorum sectam et eorumvitam tenere sino peccato, immo verius cum melioratione eorum vite, quod absit a cordibus fidelium.
Item, quod ipse Dulcinus intelligebat, quod ipse et illi, qui sunt vel tunc erant de eius secta et congregatione, recte tenebant vitam, quam tenebant apostoli primitivi Iesu Christi, et quod tenebant ipsam vitam per multa tempora preteritaque erant eorum tempore reformanda.
Item, quod non credebat, quod dominus papa posset excommunicare eos pro eo, quod tenebant vitam apostolicam
Et si dominus papa preceperit sibi et sociis suis sub excommunicationis pena, quodrelinquerent eorum sectam, et modum vivendi, quem tenebant, quod propterea eum non dimisissent nec vitam, quam tenebantasserendo ipsam vitam esse apostolicam, et quod in iis non esset obediendumdomino pape, etiam si vellet eos per censuram ecclesiasticam cogere ad dimittendam vitam eorum et modum vivendi, quem tenebant et tenuerant per tempora retroactaconfitendo nihilominus, quod dominuspapa poterat facere decreta et decretaleshabebat enim quemdam intellectum et habeat opinionem sue premisse vite, a qua nullo modo recedere volebat.
Idem, quod prelati et inquisitores heretice pravitatis non poterant citare eos vel excommunicare eo, quod tenebant dictam fidem, nec poterant cogere eos ad eam dimittendam, et hoc intendebat propterintellectum, quem habebat in quibusdam scripturis Veteris Testamentiasserens, quod non credebat, immo impossibile sibi videbatur, quod per aliquem possit sibi offendi, nec esse melior vel verior sensus velintellectus, quam erat suus, quem habebat in scripturis suprascriptis, quem intellectum asserebat se non habere ab homine vel per hominem, sed per eius maximam opinionem et conceptionem cordis sui.

giovedì 28 luglio 2011

Canto di me stesso


1 
Canto me stesso, e celebro me stesso,
E ciò che assumo voi dovete assumere
Perché ogni atomo che mi appartiene appartiene
   anche a voi.

Io ozio, ed esorto la mia anima,
Mi chino e indugio ad osservare un filo d'erba estivo.

La mia lingua, ogni atomo di sangue, fatti da questo
   suolo, da quest'aria,
Nato qui da genitori nati qui e così i loro padri e così i
   padri dei padri,
lo, ora, trentasettenne in perfetta salute, ora
   incomincio,
E spero di non cessare che alla morte.
Credi e scuole in sospeso,
Un po' discosto, sazio di ciò che sono, ma mai
   dimenticandoli,
Accolgo la natura nel bene e nel male, lascio che parli
   a caso,
Senza controllo, con l'energia originale.

2
Case e stanze sono piene di profumi, gli scaffali
   affollati di profumi,
Respiro la fragranza, la riconosco e mi piace,
Il distillato potrebbe ubriacare anche me, ma non lo
   permetto.

L'atmosfera non è un profumo, non ha il gusto del
   distillato, è inodore,
È fatta per la mia bocca, in eterno, ne sono
   innamorato,
Andrò sul pendio presso il bosco, sarò senza maschera
   e nudo,
Mi struggo dalla voglia di sentirne il contatto.

Il fumo del mio fiato,
Echi, gorgoglii, diffusi bisbigli, radice d'amore,
   filamento di seta, inforcatura e viticcio,
Il mio inspirare ed espirare, il pulsare del cuore, il
   transitare dell'aria e del sangue attraverso
   i polmoni,
Il sentore delle foglie verdi e delle foglie secche, della
   spiaggia e degli scogli neri, del fieno nel fienile,
Il suono delle parole eruttate della mia voce
   abbandonata ai vortici del vento,
Pochi rapidi baci, pochi abbracci, un tendere a cerchio
   di braccia,
Il gioco delle ombre e dei riflessi all'oscillare dei rami
   flessuosi,
Il godimento da soli o tra la folla nelle strade, o lungo
   i campi o sui fianchi d'una collina,
La sensazione di salute, il vibrare del pieno
   mezzogiorno, il canto di me che mi alzo dal letto
   e vado incontro al sole.

Hai creduto che mille acri fossero molti? che tutta la
   terra fosse molto?
Ti sei esercitato così a lungo per imparare a leggere?
Tanto orgoglio hai sentito perché afferravi il senso dei
   poemi?

Fermati con me oggi e questa notte, e ti impadronirai
   dell'origine di tutti i poemi,
Ti impadronirai dei beni della terra e del sole (ci sono
   ancora milioni di soli),
Non prenderai più le cose di seconda o terza mano, né
   guarderai con gli occhi dei morti, ne ti nutrirai di
   fantasmi libreschi,
E neppure vedrai attraverso i miei occhi o prenderai
   le cose da me,
Ascolterai da ogni parte e le filtrerai da te stesso.

3
Ho udito ciò che i parlatori dicevano, il discorso del
   principio e della fine,
Ma io non parlo del principio o della fine.

Non ci fu mai più inizio di quanto ce n'è ora,
Ne più gioventù o vecchiaia di quanta ce n'è ora,
Ne vi sarà più perfezione di quanta ce n'è ora,
Ne più cielo o più inferno di quanto ce n'è ora.

Urgere, urgere, urgere,
Sempre l'urgere procreante del mondo.

Dalla confusa oscurità gli opposti eguali avanzano,
   sempre sostanza e accrescimento, e sesso,
E intrecciarsi di identità, e sempre distinzione, sempre
   riproduzione.

Elaborare è inutile, dotti e non dotti sentono che è
   così.

Sicuri come ciò che è più sicuro, i muri a piombo, ben
   connessi, la travatura rinforzata,
Forti come un cavallo, affezionati, tracotanti, elettrici,
Io e questo mistero qui ci ergiamo.

Limpida e dolce è la mia anima, e limpido e dolce è
   tutto quello che non è la mia anima.

Se manca uno, mancano entrambi, e il non veduto è
   provato dal veduto,
Finché questo non diventi invisibile e debba a sua
   volta esser provato.

Ogni età tormenta l'altra mostrando il meglio e
   separandolo dal peggio,
Conoscendo la perfetta giustezza e imparzialità delle
   cose, mentre quelle discutono sto zitto, e vado a
   fare il bagno e ad ammirare me stesso.

Benvenuto ogni mio organo e attributo, e quelli di
   ogni uomo onesto e vigoroso,
Non un pollice è da scartare o frazione di pollice, e
   niente dev'essere meno familiare del resto.

lo sono pago: vedo, ballo, rido e canto;
E se l'amato compagno di letto che dorme abbracciato
   al mio fianco, allo spuntare del giorno si ritira
   con passo furtivo,
Lasciandomi cesti di bianchi asciugamani che mi
   riempiono la casa con la loro abbondanza,
Dovrò posporre la mia accettazione e comprensione e
   gridare ai miei occhi
Che si astengano dopo dal guardare giù per la strada,
E mi mostrino sùbito, calcolato al centesimo,
L 'esatto valore di uno e l'esatto valore di due, e chi è
   in vantaggio?

4
La gente che passa e che m'interroga,
Le persone che incontro, gli effetti su di me dei miei
   primi anni o del quartiere, della città, della
   nazione in cui vivo,
Gli avvenimenti recenti, le scoperte c invenzioni, le
   società, gli autori vecchi e nuovi,
Il pranzo, gli abiti, i compagni, il bell'aspetto, i
   complimenti, i doveri,
L'indifferenza reale o immaginaria di qualcuno che
   amo,
La malattia d'uno dei miei o mia, le malefatte, la
   perdita o la penuria di danaro, le depressioni o
   l'euforia,
Le battaglie, gli orrori della guerra fratricida., la
   febbre delle dubbie notizie, lo spasmo degli
   avvenimenti,
Tutto questo mi arriva giorno e notte, e se ne va,
Ma non sono il mio Io.

Separato da ciò che attira e trascina sta quello che io
   sono,
Se ne sta divertito, compiacente, compassionevole,
   inattivo, unitario,
Guarda dall'alto, è eretto, o appoggia un braccio a un
   impalpabile sicuro sostegno,
Con la testa piegata di Iato, curioso di ciò che verrà
   dopo,
Dentro e fuori del gioco, osservandolo e
   meravigliandosi.
Ripenso ai giorni passati quando mi affaticavo nella
   nebbia con linguisti e dialettici,
Non ho battute o argomenti, io testimonio e attendo.

5
Io credo in te anima mia, e l'altro che io sono non
   deve umiliarsi

Davanti a te ne tu davanti a lui.
Ozia con me sopra l'erba, rimuovi il groppo dalla
   gola,
Io non chiedo parole, né musica, né rime, né
   conferenze o patrocini, sia pure i migliori,
Solo la nenia mi appaga, il mormorio della tua voce a
   bocca chiusa.

Rammento come una volta in un simile limpido
   mattino d'estate noi due giacevamo,
E tu posavi il capo di traverso sui miei fianchi e ti
   volgevi a me con tenerezza,
E aperta la camicia sullo sterno, affondasti la lingua
   dentro al mio cuore nudo,
E ti stendesti fino a sentire la mia barba, e ti stendesti
   fino a trattenermi i piedi.

Rapidamente sorse e si diffuse intorno a me quella
   pace e quella conoscenza che oltrepassano ogni
   disputa terrestre,
E ora so che la mano di Dio è la promessa della mia,
So che lo spirito di Dio è il fratello del mio spirito,
Che tutti gli uomini nati sono anche fratelli miei, e le
   donne sorelle ed amanti,
E che la controd1iglia della creazione è l'amore,
E che sono infinite le foglie dritte o recline nei campi,
E le brune formiche nei piccoli pozzi sotto di loro,
E le croste di muschio del recinto serpeggiante, i
   mucchi di sassi, il sambuco, la fitolacca, il
   verbasco.

6
Che cos'è l'erba? mi chiese un bambino,
   portandomene a piene mani;
Come potevo rispondergli? Non so meglio di lui che
   cosa sia.
Suppongo che sia lo stendardo della mia vocazione,
   fatto col verde tessuto della speranza.

O forse è il fazzoletto del Signore,
Un ricordo profumato lasciato cadere di proposito,
Con la cifra del proprietario in un angolo sicché
   possiamo vederla e domandarci di Chi può
   essere?


O forse l'erba stessa è un bambino, il bimbo generato
   dalla vegetazione.

O un geroglifico uniforme
Che voglia dire, crescendo tanto in ampi spazi che in
   strette fasce di terra,
Fra bianchi e gente di colore,
Canachi, Virginiani, Membri del Congresso, gente
   comune, io do loro la stessa cosa e li accolgo
   nello stesso modo.

E ora mi appare come la bella capigliatura delle
   tombe.

Ti userò con gentilezza, erba ricciuta,
Forse traspiri dal petto di giovani uomini,
Che avrei potuto amare, se li avessi conosciuti,
Forse provieni da vecchi, o da figli ghermiti appena
   fuori dai ventri materni,
Ed ecco, sei tu il ventre materno.
Quest'erba è troppo scura per uscire dal bianco capo
   delle nonne,
Più scura della barba scolorita dei vecchi,
È scura per spuntare dal roseo palato delle bocche.

Oh nonostante tutto io sento il parlottio di tante
   lingue,
E comprendo che non esce dalle bocche per nulla.

Vorrei poter tradurre gli accenni ai giovani morti, alle
   fanciulle,
Gli accenni ai vecchi e alle madri, ai rampolli ghermiti
   ai loro ventri.

Che cosa pensate sia avvenuto dei giovani e dei
   vecchi?
E che cosa pensate sia avvenuto delle madri e dei
   figli?

Vivono e stanno bene in qualche luogo,
Il più minuscolo germoglio ci dimostra che in realtà
   non vi è morte,
E che se mai c'è stata conduceva alla vita, e non
   aspetta il termine per arrestarla,
E che cessò nell'istante in cui la vita apparve.

Tutto continua e tutto si estende, niente si annienta,
E il morire è diverso da ciò che tutti suppongono, e
   ben più fortunato.


Walt Whitman


l'immagine: Studio di nudo maschile di Francesco Sabatelli 

Dimenticare Venezia? (o Brusati?)

Andrea Occhipinti
UN CASTELLO DISINCANTATO
Film e scritti di Franco Brusati





Oltre a raccogliere numerosi scritti di Brusati donati da Andrea Occhipinti alla Fondazione Cineteca Italiana, il volume comprende due saggi che analizzano l'opera del regista nel suo complesso, interviste a Jaja Fiastri e Mariangela Melato e un'accurata filmografia. 




Corredato da molte immagini finora inedite, è un libro importante "per continuare a ricordare Franco Brusati e fare il punto sul suo cinema".

Nemesi


Tempo che i sogni umani
volgi sulla tua strada:
la chioma che dirada,
le case dei Titani,
o tu che tutte fai
vane le nostre tempre:
e vano dire sempre
e vano dire mai,
se dunque eternamente
tu fai lo stesso gioco
tu sei una ben poco
persona intelligente!
Cangiare i monti in piani
cangiare i piani in monti,
deviare dalle fonti
antiche i fiumi immani,
cangiar la terra in mare
e il mare in continente:
gran cosa non mi pare
per te, onnipossente!
Giocare con le cellule
al gioco dei cadaveri:
i rospi e le libellule
le rose ed i papaveri
rifare a tuo capriccio:
poi cucinare a strati
i tuoi pasticci andati
e il nuovo tuo pasticcio:
ma, scusa, ci vuol poca
intelligenza! Basta -
di' non ti pare? - basta
il genio d'una cuoca.
Bada che non ti parlo
per acrimonia mia:
da tempo ho ucciso il tarlo
della malinconia.
Inganno la tristezza
con qualche bella favola.
Il saggio ride. Apprezza
le gioie della tavola
e i libri dei poeti.
La favola divina
m'è come ai nervi inqueti
un getto di morfina,
ma il canto più divino
sarebbe un sogno vano
senza un torace sano
e un ottimo intestino.
Amo le donne un poco -
o bei labbri vermigli! -
Tempo, ma so il tuo gioco:
non ti farò dei figli.
Ah! Se noi tutti fossimo
(Tempo, ma c'è chi crede
di darti ancora prede!)
d'intesa, o amato prossimo,
a non far bimbi (i dardi
d'amor... fasciare e i tirsi
di gioia; - premunirsi
coi debiti riguardi),
certo - se un dio ci dòmini -
n'avrebbe un po' dispetto;
gli uomini l'han detto:
ma «chi» sono gli uomini?
Chi sono? È tanto strano
fra tante cose strambe
un coso con due gambe
detto guidogozzano!
Bada che non ti parlo
per acrimonia mia:
da tempo ho ucciso il tarlo
della malinconia.
Socchiudo gli occhi, estranio
ai casi della vita:
sento fra le mie dita
la forma del mio cranio.
Rido nell'abbandono:
o Cielo o Terra o Mare,
comincio a dubitare
se sono o se non sono!
Ma ben verrà la cosa
«vera» chiamata Morte:
che giova ansimar forte
per l'erta faticosa?
Né voglio più, né posso.
Più scaltro degli scaltri
dal margine d'un fosso
guardo passare gli altri.
E mi fan pena tutti,
contenti e non contenti,
tutti pur che viventi,
in carnevali e in lutti.
Tempo, non entusiasma
saper che tutto ha il dopo:
o buffo senza scopo
malnato protoplasma!
E non l'Uomo Sapiente,
solo, ma se parlassero
la pietra, l'erba, il passero,
sarebbero pel Niente.
Tempo, se dalla guerra
restassi e dall'evolvere
in Acqua, Fuoco, Polvere
questa misera Terra?
E invece, o Vecchio pazzo,
dà fine ai giochi strani!
Sul ciel senza domani
farem l'ultimo razzo.
Sprofonderebbe in cenere
il povero glomerulo
dove tronfieggia il querulo
sciame dell'Uman Genere.
Cesserebbe la trista
vicenda della vita e in sogno.
Certo. Ma che bisogno
c'è mai che il mondo esista?

Guido Gozzano

La forza


Bestialità divina, amico Mario,
quando affatichi i muscoli ben atti
e cingi e premi, ansando, e scuoti a tratti
il torso dell'atletico avversario!
Bene sai l'arte della forza. In vario
modo lo spossi e incalzi e pieghi e abbatti;
ti sussulta nei muscoli contratti
non so che desiderio sanguinario.
Gràvagli sopra, crudelmente bello,
con le scapole fa ch'egli riverso
tocchi la rena e «vinto» gli si gridi!
Ridevole miseria d'un cervello
quando il proteso già pollice verso
«Uccidi - griderei - Uccidi! Uccidi!»

Guido Gozzano - 

A Mario B., lottatore

Ignorabimus




Certo un mistero altissimo e più forte
dei nostri umani sogni gemebondi
governa il ritmo d'infiniti mondi
gli enimmi della Vita e della Morte.
Ma ohimè, fratelli, giova che s'affondi
lo sguardo nella notte della sorte?
Volere un Dio? Irrompere alle porte
siccome prigionieri furibondi?
Amare giova! Sulle nostre teste
par che la falce sibilando avverta
d'una legge di pace e di perdono:
«Non fate agli altri ciò che non vorreste
fosse a voi fatto!». Nella notte incerta
ben questo è certo: che l'amarsi è buono!


Guido Gozzano

Il Metodo del respiro......


Avete compreso, fratelli, che esiste un'arte, un certo metodo spirituale, per condurre rapidamente chi lo pratica alla libertà dalle passioni e alla visione di Dio. Siete convinti che la vita attiva, davanti a Dio, non è altro che il fogliame di una pianta, e che l'anima priva della custodia del cuore, il frutto, lavora inutilmente? Cerchiamo di non morire senza aver portato frutti, e di non soffrire inutili rimpianti.
Domanda (a Niceforo). Dal tuo scritto abbiamo appreso il comportamento di quelli che furono amici graditi a Dio, e quindi che esiste un'attività che, liberando speditamente l'anima dalle passioni, l'unisce a Dio nell'amore e che essa bisogna sia praticata da chiunque si arruola nell'esercito di Cristo. Ogni dubbio è stato fugato e siamo pienamente persuasi. Ma cos'è l'attenzione della mente e qual'è il modo di acquistarla? Lo vorremmo sapere, ne siamo del tutto all'oscuro.
Risposta :  Nel nome di nostro Signore Gesù Cristo che ha detto: "Senza di me nulla potete fare". Dopo averlo invocato perchè mi aiuti ed assista, mi proverò a descrivervi cosa sia l'attenzione e come, con l'aiuto di Dio, uno possa acquistarla.  Alcuni santi hanno chiamato l'attenzione "vigilanza della mente", altri "custodia del cuore", altri "sobrietà", altri "silenzio mentale", altri con altri nomi. Questi nomi designano la stessa cosa; come il pane può essere chiamato panino o cornetto, è la stessa cosa. Impara accuratamente cosa sia l'attenzione e le sue caratteristiche.
L'attenzione, è il segno del sincero cambiamento di mente; l'attenzione è la presenza dell'anima a se stessa, il distacco dal mondo e il ritorno a Dio. L'attenzione, è lo spogliamento dei peccati e il rivestimento della virtù. L'attenzione, è la ferma certezza del perdono dei peccati. L'attenzione, è il primo passo verso la contemplazione, meglio ancora ne è la base permanente: perchè è per l'attenzione che Dio scende nella mente e vi si rivela. L'attenzione è la serenità della mente, più precisamente la sua permanente imperturbabilità per la misericordia di Dio. L'attenzione è la calma del pensiero, la dimora del costante ricordo di Dio, il potere che dona pazienza nelle prove. L'attenzione è l'origine della fede, della speranza, dell'amore, se uno non ha la fede non può sopportare le prove che vengono dall'esterno, e chiunque non le accetti con gioia non può dire al Signore: "Tu sei il mio rifugio e il mio baluardo". E se uno non pone nell'Altissimo il suo rifugio, non avrà l'amore nel profondo del cuore.
Questa rettitudine della mente può essere raggiunta da molti, o anche da tutti mediante l'insegnamento. Pochi l'acquistano direttamente da Dio senza una guida, col vigore di un impulso interiore e l'ardore della fede. Ma l'eccezione non fa legge. Cerca perciò una guida sicura, le sue istruzioni ti indicheranno le possibili deviazioni che l'attenzione può subire in una direzione o in un'altra, i suoi eccessi e difetti stimolati dalle suggestioni del nemico. Avendo imparato dalle prove dolorose della tentazione, il maestro ti mostrerà il da farsi e ti indicherà correttamente il cammino spirituale che potrai percorrere senza difficoltà. Se ancora non hai una guida, cercala con ogni cura.
Ma se nonostante la ricerca non trovi nessuno che possa guidarti, invoca Dio con umile cuore e con lacrime, supplicalo nella tua povertà e fa ciò che sto per dirti.
Tu sai che la respirazione consiste nell'inspirare e nell'espirare aria. L'organo che a tale scopo serve è il cuore, esso è il principio della vita e del calore. Il cuore attira a sè il fiato per diffondere all'esterno il suo calore con l'espirazione e assicurarsi una temperatura ideale. Il principio o più precisamente lo strumento di questo ritmo sono i polmoni. Costruiti dal Creatore con un tenue tessuto, introducono ed estromettono l'aria come un soffietto, così che il cuore assorbendo nel respiro l'aria fredda ed emettendola riscaldata, mantiene intatta quella funzione che gli è stata affidata per l'equilibrio del corpo vivente.
1) Come già ho detto, mettiti seduto, raccogli il tuo spirito e introducilo nelle narici; è il cammino che l'aria segue per andare al cuore. Spingilo, forzalo a discendere nel cuore, insieme con l'aria inspirata Quando vi sarà giunto, vedrai la gioia che eromperà: nulla avrai da rimpiangere. Come uno che torna a casa dopo una lunga assenza non sa frenare la gioia di aver ritrovato la moglie e i figli; così lo spirito quando si unisce all'anima, è colmo di gioia e di ineffabile allegrezza. A questo punto, abituati a non fare uscire lo spirito con impazienza, le prime volte si sentirà smarrito in questa interiore reclusione e prigione. Ma, quando si sarà ambientato, non avrà alcun desiderio di sortire nelle consuete divagazioni; il regno dei cieli è dentro di noi.
Chi volge nel suo intimo lo sguardo, e con pura preghiera cerca di dimorarvi, considera le cose esteriori prive di valore e di pregio.
2) Se fin da principio riesci a discendere nel cuore nel modo che ti ho descritto, ringrazia Dio! A lui dà gloria, esulta e sii fedele a questo esercizio, ti manifesterà le cose che ignori. A questo punto hai bisogno di un altro insegnamento: mentre il tuo pensiero dimora nel cuore, non stare silenzioso e  ozioso, ma costantemente sii impegnato a gridare "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio abbi pietà di me", e non ti stancare. Questa pratica tenendo lontano il tuo pensiero dalle divagazioni, lo rende invulnerabile e inattaccabile alle suggestioni del nemico, e ogni giorno lo eleva all'amore e alla nostalgia di Dio.
3) Ma se, nonostante tutti gli sforzi, non riesci ad entrare nel regno del cuore, come ti ho indicato, fa quello che sto per dirti, e con l'aiuto di Dio troverai ciò che stai cercando. Tu sai che nel petto di ogni uomo c'è la facoltà dell'interiore dialogo. Quando le nostre labbra sono silenziose, parliamo, desideriamo, preghiamo e cantiamo dei salmi nel nostro petto. Così, allontana ogni pensiero da questa interiore facoltà, e se veramente lo desideri puoi farlo, e introduci in essa l'invocazione: "Signore Gesù Cristo abbi pietà di me"e costringila a gridare queste parole dopo eliminato ogni altro pensiero. Quando, col tempo, ti sarai impadronito di questa pratica, ti aprirà la strada del cuore che ti ho descritto, e che raggiungerai indubbiamente, e che io stesso ho sperimentato.
Se persevererai in questo esercizio con intenso desiderio e ardente attenzione, ti verrà incontro il coro delle virtù: l'amore, la gioia, la pace e tutte le altre. Per esse tutte le tue domande avranno la risposta in Cristo Gesù Signore nostro. A  Lui insieme al Padre e allo Spirito Santo, la gloria, il potere, l'onore e l'adorazione, ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen.
Niceforo il Solitario

mercoledì 27 luglio 2011

Raffaella Carra' e Rascel-Dove vanno a finire i palloncini?



Dove andranno a finire i palloncini
quando sfuggono di mano ai bambini?
dove andranno, dove andranno?
vanno a spasso per l'azzurrità.

E' felice di volare il palloncino
perchè sa che in fondo il cielo è il suo destino
piange il bimbo col nasino in su
mentre già non lo vede più.

E gli angioletti dal balcon di nubi di coton
già fanno capolin
e di vedetta pronto c'è quell'angioletto che
raccatta i palloncin.

E nel cielo già si vendono i biglietti
del calcistico torneo degli angioletti
cherubini, serafini
giocheranno là su
negli stadi del cielo blu.

Dove andranno a finire i palloncini di Renato Rascel è la prima canzoncina che ho cantato in pubblico all'asilo

La Notte Santa


Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell’osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.
Il campanile scocca
lentamente le sei.
- Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio?
Un po’ di posto per me e per Giuseppe?
- Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe
Il campanile scocca
lentamente le sette.
- Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
- Tutto l’albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
Tentate al Cervo Bianco, quell’osteria più sotto.
Il campanile scocca
lentamente le otto.
- O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire? Non ci mandate altrove!
- S’attende la cometa. Tutto l’albergo ho pieno
d’astronomi e di dotti, qui giunti d’ogni dove.
Il campanile scocca
lentamente le nove.
Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
- Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci…
Il campanile scocca
lentamente le dieci.
Oste di Cesarea… – Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
L’albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
non amo la miscela dell’alta e bassa gente.
Il campanile scocca
le undici lentamente.
La neve! – ecco una stalla! – Avrà posto per due?
- Che freddo! – Siamo a sosta – Ma quanta neve, quanta!
Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue…
Maria già trascolora, divinamente affranta…
Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.
È nato!
Alleluja! Alleluja!
È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d’un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaje
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!
Non sete, non molli tappeti,
ma, come nei libri hanno detto
da quattro mill’anni i Profeti,
un poco di paglia ha per letto.
Per quattro mill’anni s’attese
quest’ora su tutte le ore.
È nato! È nato il Signore!
È nato nel nostro paese!
Risplende d’un astro divino
La notte che già fu sì buia.
È nato il Sovrano Bambino.
È nato!
Alleluja! Alleluja!
La Notte Santa di Guido Gozzano è stata la prima poesia che ho recitato in pubblico